L’uscita del documentario Seaspiracy su Netflix ha lasciato molti spettatori colpiti da quanto e da come i nostri mari vengano sfruttati e sconsideratamente depredati delle risorse che li abitano.
Il documentario denuncia fortemente anche l’industria dell’allevamento di salmoni accusandola di “tingere” le carni di questi pesci per renderle più appetibili. Inoltre mostra come questi pesci vivano in enormi reti costretti a un perpetuo nuoto circolare in acque sporche, piene delle loro feci e di parassiti.
Il reportage tuttavia non presenta in maniera esaustiva l’acquacoltura e anzi in alcuni casi la demonizza eccessivamente.
L’acquacoltura in numeri
L’acquacoltura consiste nell’allevamento all’interno di grandi strutture in mare (formate da grosse reti) o anche in grandi vasconi o stagni di acqua dolce.
L’allevamento di prodotti ittici oggi comprende sia quello dei pesci che la molluschicoltura.
Negli ultimi decenni, però, il pesce derivante da questa industria è aumentato notevolmente.
Per dare un’idea, oggi in Europa fornisce circa il 20% del pesce che troviamo nelle nostre pescherie.
La percentuale sale se guardiamo la produzione di pesce mondiale. Infatti quasi il 50% del pesce deriva da allevamento e sembra che in futuro questa percentuale non possa far altro che aumentare. Questo è dovuto principalmente a causa di due fattori: l’aumento della popolazione e la riduzione del pesce in seguito all’overfishing.

Nel 2003 l’acquacoltura ha contribuito per circa il 31% alla produzione alimentare (parliamo di 42 milioni di tonnellate) su un totale di 132 milioni di tonnellate di pesce pescato.
In futuro queste proporzioni aumenteranno insieme alla richiesta di pesce e alla sempre minor quantità di pesce che impiegherà meno le flotte pescherecce.
Come funziona l’acquacoltura?
Come si diceva all’inizio, il documentario non descrive in maniera completa l’allevamento alieuticoma si sofferma unicamente su un particolare pesce, il salmone.
Tuttavia, oggi sono molte le specie che vengono allevate sia in terra che in mare.
Tra le più comuni, che possiamo trovare dai nostri pescivendoli, abbiamo: branzino, anguilla, orata, mitili e molte altre specie sia di acqua dolce che di acqua salata.
L’allevamento è diviso in tre categorie:
- L’allevamento intensivo, in cui i pesci vengono tenuti in gabbie in mare o in terra e sono alimentati dall’uomo in maniera non naturale. Questo è il metodo meno sostenibile e più stressante per l’animale, costretto in una gabbia e alimentato forzatamente con mangimi derivanti da farina di pesce.
Va detto però che, grazie a leggi europee piuttosto restrittive si assicura che l’animale sia in terra che in acqua sia costantemente sottoposto ad una corrente d’acqua per disperdere o eliminare gran parte dei materiali di scarto che produce; inoltre le leggi europee sono molto rigorose nella somministrazione di medicinali o antibiotici, di conseguenza il pesce che viene allevato non presenta nessun elemento chimico o sostanza derivante da farmaci di vario genere. - L’acquacoltura semintensiva, svolta in vasche a terra, aree lagunari, aree costiere o laghi. Il pesce quindi può nutrirsi in maniera più naturale ricevendo solo un’integrazione con mangimi forniti dall’uomo che assicurano una dieta più completa.
- L’acquacoltura estensiva, che permette ai pesci di essere liberi all’interno di grandi specchi d’acqua o comunque in aree di mare estese dove possono nutrirsi autonomamente senza l’intervento umano.
I problemi evidenziati dal documentario hanno soluzioni?
Una delle problematiche principali mostrate all’interno del reportage di Ali Tabrizi e il vero problema dietro l’allevamento è la questione del nutrimento dei pesci.
I mangimi utilizzati derivano per la maggior parte da farina di pesce. Questa deriva dal pesce pescato che subisce un particolare trattamento da cui si ricava questo composto alla base dei foraggi.
Il controsenso è quindi evidente: ridurre la pesca allevando animali nutriti con il pesce pescato.
Il problema è piuttosto grave, tuttavia soluzioni alternative esistono e sono tuttora in fase di studio.
Un recente lavoro svolto in Campania ha dimostrato come sia possibile allevare alcune specie zooplanctoniche da utilizzare poi come fonte di cibo per i pesci degli stabilimenti semintensivi.
Si tratterebbe di un cibo decisamente più salutare e naturale per l’animale e, inoltre, favorirebbe nelle fasi larvali lo sviluppo di un istinto e di un comportamento predatorio dei pesci rendendoli animali più sani.
Altre proposte suggeriscono l’uso del krill in sostituzione dei piccoli pesci pelagici, quindi acciughe o sardine, per la produzione di mangimi.
Tuttavia, questo piccolo crostaceo si trova alla base della dieta di molti animali più grandi, quali balene, calamari, tonni, acciughe, aringhe, ecc. che a loro volta possono essere cibo per pesci più grandi. Impattare ulteriormente una risorsa che già naturalmente è molto sfruttata potrebbe avere risultati disastrosi.
Un altro tema che viene discusso in Seaspiracy è la questione delle deiezioni degli animali.
L’inquinamento causato dalle sostanze emesse dagli animali allevati è estremamente dannoso. In alcune zone del mondo, in particolare aree con deboli correnti, si è osservato che questi residui soffocano l’habitat di fondo trasformandolo in una sterile pianura.
L’Unione Europea anche qui presenta una serie di regolamentazioni per cui chi decide di costruire grandi impianti deve posizionare le gabbie in aree di mare con forti correnti così da favorire la dispersione dei residui senza impattare il fondale.
Le principali difficoltà
Questa attività presenta non poche problematiche, come visto poco sopra.
Alcune in particolare possono causare gravi danni ambientali ed economici.
La presenza di strutture atte a trattenere il pesce può causare problematiche ambientali, con il rilascio di sostanze nutritive ricche sia in aree di fiume che di mare, causando gravi crescite algali e la moria di altre specie ittiche. Inoltre, queste grandi gabbie o vasche (nel caso di allevamenti a terra) danneggiano il turismo, sono spesso ben visibili da terra e rovinano il paesaggio naturale. Per questo ottenere i permessi non è sempre così facile in Italia.
In molte nazioni poi sono allevati animali alloctoni provenienti da ambienti diversi ma che possono trovarsi bene anche non nelle loro acque.
In casi come questi uno degli inconvenienti che succede più frequentemente è che questi animali alieni scappino dagli impianti e si adattino al nuovo habitat. Questo causa gravi danni alle comunità che già lo abitano, soprattutto se non trovano un predatore, parassiti o malattie che possano limitarne la crescita.
Aspetti positivi
L’acquacoltura presenta anche alcuni aspetti positivi: permette di ridurre parte della pressione esercitata con la pesca sugli stock ittici naturali.
Se sviluppata e messa in atto con le giuste condizioni potrebbe dare il tempo a molti organismi di riprendersi dall’eccessivo sfruttamento.
Aziende che investono in questa industria potrebbero dare lavoro a molti pescatori che sempre più spesso si trovano senza a causa della carenza di pesce.
In particolare, in allevamenti estensivi, la presenza di pescatori esperti può essere un grande vantaggio.
Questa forma di acquacoltura è la meno impattante dato che l’animale vive in comunità ridotte e si nutre esclusivamente di ciò che ricava dall’ambiente.
Un uso accorto di spazi e risorse permetterebbe di sfruttare l’acqua in uscita dalle vasche, ricca di nutrienti, nell’agricoltura. Così da fornire alle piante un fertilizzante naturale e assicurandosi di non inquinare altri bacini marini o fluviali.
Recentemente si ipotizzava anche l’allevamento di pesce in mare accompagnato dalla molluschicoltura e coltivazione di alghe ad uso commerciale.
Questo ridurrebbe l’inquinamento da deiezioni praticamente a zero dato che l’effetto combinato di alghe e molluschi filtratori permetterebbe di ripulire totalmente l’acqua che passa attraverso le gabbie del pesce.
Conclusione
In conclusione, l’acquacoltura presenta non poche problematiche che necessitano di molto studio per essere risolte. Tuttavia, se messa in atto seguendo attenti regolamenti, potrebbe diventare una fonte complementare ad altre forme di produzione alieutica come la pesca.
È però fondamentale imporre leggi e direttive che assicurino la salute dell’animale e che sui banchi delle pescherie arrivi un prodotto sano, privo di additivi o antibiotici di vario genere.