Quando si pensa al mondo sottomarino, una delle prime immagini che balza alla mente è una splendida barriera corallina, ricca di vita e colori. Basti pensare al film Pixar: “Alla ricerca di Nemo”.
I primi minuti in cui i due pesci pagliaccio attraversano il reef è un tripudio di tonalità vivaci e animali di ogni forma e dimensione. Grazie all’incredibile tridimensionalità che li caratterizza possiamo trovare all’interno di un solo habitat centinaia di differenti microhabitat che hanno permesso lo sviluppo di una biodiversità che può lasciare a bocca aperta.
Infatti, si stima che pur ricoprendo solo l’1% di tutta la superfice terrestre, essi contengano il 25% di tutte le specie di pesci. Proprio per questo le barriere sono state spesso paragonate alle foreste tropicali terrestri. E, sfortunatamente, entrambi risentono dell’azione diretta ed indiretta dell’uomo…
Uno dei principali problemi che colpisce i reef corallini oggi è il bleaching o sbiancamento dei coralli. Questo fenomeno estremamente distruttivo negli ultimi anni sta distruggendo grandi superfici delle barriere ma per capirne le cause bisogna innanzitutto capire cosa sono i coralli.
I coralli
Ciò che noi vediamo dei coralli, la grande struttura che tanto ci colpisce è il frutto dell’azione di organismi coloniali molto più piccoli chiamati polipi (da non confondere con i polpi, i cefalopodi che tanto amiamo mangiare).
Questi piccoli organismi appartenenti al phylum degli Cnidari, lo stesso a cui appartengono le meduse, hanno evoluto una simbiosi unica con delle piccole alghe unicellulari chiamate zooxantelle.
Quest’unione è necessaria alla sopravvivenza del corallo, infatti le acque coralline pur così ricche di vita sono estremamente povere di nutrimento e microrganismi di cui il corallo ha bisogno; le microalghe, che vivono all’interno dei polipi forniscono nutrienti e in cambio ricevono l’anidride carbonica dall’animale che utilizzano per poter svolgere la fotosintesi.
Il bleaching
In condizioni di forte stress l’animale può espellere questi simbionti; il corallo è quindi privo della sua principale fonte di nutrimento e assume una colorazione bianca o pallida da cui deriva il nome di bleaching. Questa emissione è causata da forzanti ambientali, il principale è un aumento della temperatura dell’acqua, d’altronde si è visto che anche pochi gradi possono portare l’animale in uno stato di “febbre” che scatena come risposta l’eliminazione di ogni forma di microrganismo.
L’aumento della temperatura tuttavia non è l’unico fattore scatenante: carenza di ossigeno disciolto in acqua a seguito di bloom di fitoplancton, elevata presenza di sedimento in acqua, presenza di erbicidi, presenza di inquinanti e l’acidificazione sono solo alcuni esempi.
Tra il 1979 e il 1990 sono stati osservati sessanta grandi eventi di sbiancamento, che hanno interessato i reef di ogni parte del mondo. Il più lungo e distruttivo evento di bleaching mai registrato si è avuto tra il 2014 e il 2017 e la causa è da imputarsi al fenomeno del El Niño che ha causato gravi danni al 70% delle barriere coralline di tutto il mondo.
Si stima inoltre che tra il 1985 e il 2010 la superfice di barriera interessata dal fenomeno di bleaching fosse di circa 20000 km2; ci si aspetta, inoltre, che in futuro con un ulteriore aumento delle temperature questi eventi diventino sempre più frequenti.
Gli interventi e la protezione
Il processo di bleaching fortunatamente non sempre è mortale e definitivo per il corallo, in certi casi se le temperature rientrano entro limiti non stressanti per l’animale questo procedimento può invertirsi. Inoltre la ricerca si sta impegnando molto per trovare una soluzione o comunque metodi di protezione del corallo che impediscano in primis di espellere i simbionti. Uno dei metodi oggi più in uso per ricostruire aree fortemente colpite dallo sbiancamento è l’allevamento e il trapianto di coralli. Grazie a studi approfonditi sulla biologia di questi animali oggi si riesce ad allevarli in vasche senza bisogno di danneggiare gli organismi.
La protezione di questi ecosistemi è fondamentale, i servizi che ci fornisce sono moltissimi e tutti hanno un elevatissimo valore economico: protezione delle coste, servizi biogeochimici (riducendo i livelli di azoto in acqua), forniscono utili informazioni e testimonianze in ambito paleoclimatico e anche da un punto di vista ricreativo e turistico sono fonte di guadagni. Senza contare che difendere e salvaguardare questi habitat assicura la sopravvivenza di centinaia se non migliaia di altre specie ad essi collegati. Sono innumerevoli i piccoli crostacei e molluschi che vivono tra le fronde di queste foreste animali, tra gli anfratti che si sviluppano grazie alle biocostruzioni trovano rifugio moltissimi pesci che attirano una moltitudine di predatori tra cui molti squali, che oggi sono tra le specie più in pericolo di estinzione.
Questa catena che unisce così tante specie diverse può sembrare non avere nulla a che fare con noi, tuttavia, non dovremmo dimenticare che noi esseri umani, responsabili dei maggiori danni causati all’ambiente, facciamo parte di quella stessa catena e ne costituiamo l’ultimo anello.