Oggi ho scritto un articolo un po’ diverso dal solito. Questa non sarà la recensione del libro sulla canapa di Chiara Spadaro. La verità è che dopo aver finito di leggere Canapa Revolution (2018) non riuscivo a capacitarmi di come la coltivazione di questa pianta utilissima contro la crisi climatica fosse diventata illegale in tantissimi paesi. Non parleremo di legalizzazione della droga, ma di cosa sia davvero la canapa e della sua storia affascinante.
Ho deciso di iniziare un nuovo ciclo di articoli sulla canapa e quello di oggi serve a dare un contesto storico per i prossimi, che invece approfondiranno i prodotti sostenibili derivati da questa pianta.

Introduzione
Ho trovato questo libricino sulla canapa allo stand di Altreconomia durante la fiera Più Libri Più Liberi a Roma. Il colore acceso della copertina mi aveva colpita subito, ma soprattutto l’argomento mi interessava molto per il suo legame con la rivoluzione ambientalista.
Non è un caso che anche nel titolo ci sia la parola revolution: questa pianta può davvero aiutarci a uscire dalla crisi climatica. Infatti la Cannabis sativa viene definita eco-pianta, perché come spiega l’autrice:
“[…] è alta e robusta, adatta alla coltivazione con metodi naturali; assorbe CO2 e depura i terreni; cresce rapidamente per lasciare spazio ad altre colture; le proprietà nutrizionali dei suoi semi ne fanno un toccasana per la salute; mentre i fiori, impiegati in medicina, hanno importanti proprietà curative.”
In verità i suoi benefici non si fermano all’agricoltura, ma spaziano dall’industria tessile alla bioedilizia alla cosmetica. Oggi però vorrei solo introdurre l’argomento. E, come noterete presto, persino la sua storia e soprattutto il motivo per cui è stata vietata si collegano alle dinamiche capitalistiche che già abbiamo incontrato spesso quando parliamo di crisi climatica.
Leggere questo libro mi ha trascinata in una lunga ricerca. Onestamente non potevo credere che tutte quelle qualità fossero vere e adesso, dopo aver confermato tutto, non capisco perché se ne parli così poco. Pensare a questa pianta unicamente come una sostanza psicoattiva è estremamente riduttivo e pericoloso, perché lascia spazio ad alternative sintetiche e distruttive per il nostro pianeta.
Cos’è la canapa? La differenza tra canapa e marijuana
La canapa è semplicemente il nome comune della pianta Cannabis sativa L. (che sta per Linneo, che la classificò nel 1753). Si tratta di una pianta alta tra 1 e 5 metri, che predilige i climi temperati e si adatta a tutti i terreni, anche se preferisce quelli un po’ umidi. Cresce velocemente, nel giro di 3-4 mesi, senza bisogno di tanti pesticidi o alcun fertilizzante. Inoltre assorbe dal terreno le sostanze inquinanti – tanto che in Sud Africa si sta studiando un modo per usare la canapa nella bonifica dei terreni di miniere abbandonate.
La canapa contiene i cannabinoidi, cioè delle sostanze chimiche di origine naturale che possono dare effetti psicoattivi e non, a seconda delle loro caratteristiche. Le due sostanze più conosciute sono il tetraidrocannabinolo (THC) e il cannabidiolo (CBD).
Perché diciamo marijuana?
Marihuana (o marijuana) è il termine con cui si indica la stessa identica pianta in Messico. Durante il proibizionismo negli Stati Uniti si cominciò a chiamare la canapa in questo modo per demonizzarla collegandola agli immigrati. Di come alcune aziende americane hanno boicottato la canapa seguendo solo il proprio interesse parleremo più avanti. Ma è per questo che ancora oggi la marijuana ci fa pensare immediatamente solo alla sostanza psicoattiva che si ottiene dalle infiorescenze essiccate delle piante femminili di canapa.
Tuttavia di questa pianta non si usano solo i fiori, anzi! Dal tiglio, la parte fibrosa della canapa, si possono fabbricare vestiti. Il canapulo, il nucleo interno allo stelo, unito al silice si usa per costruire case. Dalla polpa di canapa si crea la carta. I semi sono ricchi di Omega-3 e Omega-6, vitamine B1 e B2 e potassio. L’olio viene usato in cosmesi per le sue proprietà antiossidanti. Insomma della canapa non si butta niente.
Le origini della canapa
Secondo la rivista Science, tramite uno studio dei pollini, si può far risalire la presenza della canapa nell’area dell’altopiano tibetano a 28 milioni di anni fa. Ma il suo primo contatto con la civiltà è avvenuto più di 4000 anni fa, quando i contadini cinesi hanno cominciato a coltivarla per ricavarne olio e fibre per corde, vestiti e carta.
A importare questa pianta multiuso in Occidente furono gli Sciiti. Erodoto scrive, nel IV libro delle sue Storie (455 a.C.), che “nel loro paese cresce la canapa, pianta molto simile al lino, ma più grossa e più alta”. La coltivazione in Europa però diventò stabile intorno al 500 d.C., scrive Chiara Spadaro. Nei secoli poi la canapa venne usata per alcune delle opere più importanti della storia: ad esempio, la Bibbia di Gutenberg (1453) o la dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776) furono stampata su carta di canapa. Inoltre artisti come Leonardo da Vinci (1515), Rembrandt (1661), Vincent Van Gogh (1889) e tanti altri usavano anche tele fatte di canapa.
Costretti a coltivare canapa per legge
In alcuni momenti storici è stato addirittura illegale non coltivare questa pianta. Nel 1533 re Enrico VIII obbligò tutti i contadini del Regno Unito a piantare in ogni terreno circa 1000 metri quadri di lino o canapa, pena una multa salatissima. Il motivo è che dai raccolti si ricavavano corde e reti resistenti e utilissime alla marina militare inglese. Successivamente re Giacomo I sfruttò la colonia inglese di Jamestown in New England per importare la canapa anche dall’America. Nel 1619 infatti i coloni dovevano coltivare per legge almeno 100 piante di canapa.
Infine, nonostante il Marijuana Tax Act del 1937, di cui parleremo più avanti con la nascita del proibizionismo, il Dipartimento dell’Agricoltura statunitense finanziò una campagna di promozione della canapa (Hemp for Victory, 1942) per ottenere materiali bellici, considerati indispensabili per la vittoria della Seconda guerra mondiale.
La canapa in Italia
Dallo studio dei pollini in Italia, si è scoperto che esistevano tracce di canapa in natura già tra il 11.500 a.C. e il 7000 a.C. nella zona del lago di Albano e di Nemi. Furono gli Etruschi a coltivare per primi questa pianta per bonificare e fertilizzare i terreni. Così, quando i Romani conquistarono quelle regioni, ereditarono queste conoscenze. Cominciarono anche a utilizzare la fibra di canapa per fabbricare corde e reti da pesca o per creare medicamenti antidolorifici dai suoi semi.
Com’è ovvio che sia, l’espansione delle Repubbliche Marinare e la necessità di cordami resistenti nella costruzione delle navi favorì la coltivazione della canapa in tutta la penisola. Anche le reti da pesca erano fatte di questa fibra fino all’Ottocento.
Per inciso, se avessimo continuato a usarla per fabbricare questo tipo di materiali, oggi non ci sarebbero quantità infinite di reti fantasma sul fondo dei nostri mari. Infatti, dopo la terribile campagna proibizionista, la canapa fu scartata per dare spazio alle più economiche fibre sintetiche. Questi derivati del petrolio, come il nylon, si depositano sui fondali e sono una delle cause di morte degli animali marini e della distruzione di interi ecosistemi, come spieghiamo nell’articolo sulla sovrapesca. Invece, come giustamente spiega Matteo Gracis in un’intervista, le reti in canapa abbandonate in mare erano completamente biodegradabili e diventavano in pochi mesi cibo per i pesci.
Dalla seconda produttrice al mondo al Fascismo
Fino agli anni Quaranta, l’Italia è stata la seconda produttrice al mondo, dopo l’Unione Sovietica, di canapa. Tuttavia, il nostro prodotto era considerato il migliore per qualità e lo esportavamo ovunque. Ad esempio, la Marina Inglese vestiva divise fatte di pregiata canapa italiana. Solo sul nostro territorio se ne coltivavano circa 90.000 ettari – contro i 3000 ettari di oggi. Il primato italiano della produzione di canapa industriale continuò ininterrottamente fino al XX secolo.
Quando arrivò il Fascismo, era già chiaro che questa pianta avesse tanto potenziale. Infatti lo stesso Mussolini dichiarò: “La Canapa […] è destinata ad emanciparci quanto più possibile dal gravoso tributo che abbiamo ancora verso l’estero nel settore delle fibre tessili”. Vennero così istituiti i consorzi volontari per la canapa (1932), ma già l’anno dopo la sua produzione diventò obbligatoria in alcune province considerate le più adatte alla coltivazione.
Di lì a poco però le campagne calunniatorie contro la canapa, iniziate negli Stati Uniti, sarebbero arrivate fino in Europa. Durante la Seconda guerra mondiale ricrebbe un’esigenza di canapa per ottenere molta cellulosa in poco tempo, da cui poter ricavare esplosivi di nitrocellulosa. Ma dopo il conflitto le coltivazioni di canapa sparirono gradualmente dal nostro paese.
Il proibizionismo
Il declino comincia in America
Nonostante l’alta quantità di prodotti ricavabili dalla pianta di canapa, intorno agli anni Trenta cominciarono a emergere nuovi materiali derivati dal petrolio o ricavati dagli alberi. Nel 1916 il Dipartimento dell’Agricoltura statunitense (USDA) dichiarò in un bollettino ufficiale che dalla canapa si ricavava 4 volte più carta che dagli alberi.
Ma questo non fermò Roosevelt dal firmare il Marihuana Tax Act nel 1937, che avrebbe decretato la fine della coltivazione di qualunque tipo di canapa. Questa legge arrivò alla fine di una lunga campagna antidroga portata avanti soprattutto da Anslinger della Federal Bureau of Narcotics. In quegli anni la canapa, ormai chiamata solo marijuana per demonizzarla, era vista come un primo passo verso le droghe più pesanti o come una sostanza demoniaca che avrebbe fatto impazzire chiunque e causato l’aumento della criminalità. I poster, le pubblicità e addirittura interi film (come Reefer Madness del 1936) a riguardo sono a dir poco estremi ed esagerati, per non dire ridicoli.

Questa legge impedì anche a Henry Ford di realizzare il suo progetto della Hemp Body Car (1940), un’auto completamente costruita in canapa e alimentata a bioetanolo. Di questa macchina completamente sostenibile e biodegradabile fu costruito un prototipo, ma ormai le coltivazioni di canapa stavano già scomparendo. Questo progetto è stato ripreso recentemente dalla compagnia canadese Kestrel.
Il coinvolgimento di Hearst, Du Pont e Mellon
Vorrei anche soffermarmi sull’impatto che ha avuto sul proibizionismo della canapa la coalizione tra William R. Hearst e la famiglia Du Pont. Il primo era proprietario di una catena di giornali prodotti col legno degli alberi e solventi chimici, forniti dall’industria dei Du Pont. Inoltre Andrew Mellon, segretario del Tesoro degli USA, aveva investito proprio nella Du Pont. Perciò questi magnati si unirono per cavalcare l’onda della campagna di Anslinger contro la canapa.
Come abbiamo visto nell’articolo sul libro Denial, questa non è la prima volta (e non sarà l’ultima) in cui delle grandi aziende hanno pensato solo al proprio profitto a discapito degli effetti duraturi che hanno le loro azioni sul futuro. Oggi la Du Pont è la diciassettesima famiglia più ricca degli Stati Uniti, secondo Forbes. Di sicuro la scoperta di fibre come il nylon e il rayon fu importante, ma ci ha fatto passare dall’utilizzare materiali naturali come la canapa a diventare dipendenti dal petrolio.
Anche se sicuramente il loro coinvolgimento ha aiutato a promuovere il proibizionismo, non credo che questi personaggi siano i soli responsabili. Sfruttando il razzismo dell’epoca, lo Stato aveva già cominciato una martellante propaganda contro la canapa. Infatti alcuni stati come la California avevano già vietato l’uso di cannabis non prescritta da un medico nel 1913. Inoltre è evidente che le campagne antidroga erano in realtà un pretesto per fare propaganda contro gli immigrati cinesi, messicani e contro la comunità nera americana.
La canapa diventa illegale anche in Italia
In Italia non c’è mai stata una propaganda così forte contro la canapa. Fino agli anni Cinquanta ne rimanemmo tra i primi produttori mondiali. Ciò che portò alla fine della coltivazione fu principalmente il mancato investimento in macchinari per la macerazione, che veniva ancora fatta manualmente e quindi con troppa fatica. Di conseguenza il costo per lavorarla aumentò – e questo è un problema ancora molto attuale. Quindi, quando arrivarono le fibre sintetiche e più economiche americane, fu chiaro che la produzione di fibre naturali era destinata a finire.
Le leggi antidroga distruggono la reputazione della canapa
Negli anni successivi vennero anche emanate diverse leggi antidroga, che decretarono la fine della canapicoltura in Italia.
Nel 1961 venne firmata a New York la Convenzione Unica sulle Sostanze Stupefacenti (aggiornata nel 1971 e nel 1988), un trattato internazionale approvato dall’ONU. Per la prima volta la canapa era inclusa tra le sostanze stupefacenti (insieme a oppio, coca e i loro derivati) ed entrava nell’elenco delle droghe controllate a livello internazionale. Tra i 183 paesi che firmarono c’era anche l’Italia.
A livello nazionale, le due leggi più impattanti furono la Legge Cossiga del 1975 (Legge n. 685, “Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope”) e la Legge antidroga Jervolino-Vassalli del 1990. Con esse si può dire che la canapa sparì quasi totalmente dal nostro territorio.
Il problema principale di queste leggi è che collegarono strettamente la canapa alla droga (che si ricava solo dalle infiorescenze), quindi coltivarla divenne sconveniente, costoso e illegale. Invece questa pianta ha tantissimi altri usi che potrebbero dare alternative sostenibili a moltissimi prodotti usati ancora oggi. Infatti delle sue potenzialità parleremo nei prossimi articoli. Ci concentreremo sui benefici che la coltivazione di canapa ha sui terreni, sui prodotti che ci fornisce (dalla cucina all’industria tessile) e sulla bioedilizia.