Il termine sostenibilità è oggi ampiamente utilizzato nella promozione dei processi produttivi. È anche sempre più di uso comune per pubblicizzare i prodotti al grande pubblico. Si è affacciato al mondo delle produzioni ittiche e della pesca da qualche anno e, proprio di recente, è tornato alla ribalta a seguito del discusso documentario sul tema, Seaspiracy.
Per dare una risposta sensata alla domanda del titolo, però, è necessario analizzare il significato esatto del termine. Non esistendo una definizione unica, la pesca sostenibile si può descrivere come quel processo di prelievo di risorse ittiche che:
- non incide con peso negativo sugli stock ittici;
- evita di danneggiare habitat ed ecosistemi marini durante le fasi di cattura;
- non impatta negativamente su specie non commerciali o protette.
Il lavoro del CESTHA

Proprio per lavorare su questi temi, un gruppo di ricercatori in ambito ambientale ha fondato a Ravenna un centro ricerche che si occupa di pesca sostenibile: è il CESTHA, Centro Sperimentale per la Tutela degli Habitat.
Tra i numerosi progetti che il centro conduce sulla pesca sostenibile, uno dei cardini è sicuramente il lavoro svolto sulle seppie. Nel periodo primaverile, infatti, la costa occidentale dell’Adriatico vede giungere in acque basse gli adulti di Sepia officinalis, che arrivano lì per terminare il proprio ciclo riproduttivo. I pescatori, da sempre, tappezzano i fondali di nasse, che le seppie scambiano per tane nelle quali rifugiarsi, senza però riuscire più a uscirne. Sembrerebbe trattarsi di una tecnica di pesca molto sostenibile, in fondo il prelievo si concentra su esemplari adulti che si stanno riproducendo. Apparentemente non sembra avere un grosso impatto sullo stock, ma in realtà la problematica risiede proprio in questo aspetto. Gli attrezzi si ricoprono di uova deposte dalle seppie intrappolate e, diventando molto pesanti, sono soggetti a dei veri e propri lavaggi che distruggono, ogni anno, migliaia e migliaia di potenziali nuove seppie.
Soluzioni adottate
Per rendere questa attività meno impattante, il successo dei ricercatori del centro è stato quello di coinvolgere i pescatori e studiare con loro un metodo che mitigasse l’impatto della pesca alle seppie sulle uova deposte. Ed ecco che dall’unione delle competenze si è giunti a un processo che prosegue da diversi anni in Emilia Romagna e nella laguna veneta. Questo è strutturato in due azioni:
- la prima vede gli stessi pescatori impegnati nella cala di alcuni “collettori”, ossia strutture in cima di fibra naturale e sughero che ricreano delle alghe sopra le quali le seppie possono “scaricare” il proprio carico di uova;
- la seconda è un processo di schiusa ex situ, ossia all’interno delle vasche del centro, dove i pescatori conferiscono una parte delle uova delle loro nasse raccogliendole a mano, perché si schiudano i giovanili e vengano rilasciati in mare.



Con la somma di queste due azioni si possono salvare, ogni anno, centinaia di migliaia di nuove seppie che potranno essere pescate nella stagione successiva. In fondo, quando si rema nella stessa direzione, la pesca sostenibile può esistere.