Ci sono posti che non ho mai visitato ma che certi libri, ne rendono il nome familiare.
Vieni catturato dal suono della lingua, dalle parole non tradotte scritte in corsivo, dalla curiosità di immaginare come sarebbe quel territorio montuoso. Un luogo dove i bambini hanno gli occhi bistrati ed (alcuni) fanno volare in alto gli aquiloni, se solo non fosse colpito da così tanta sofferenza.
L’Afghanistan che ha raccontato Khaled Hosseini nel Cacciatore di Aquiloni è tornata sulle nostre bocche lo scorso Agosto, con la terza presa di Kabul, da parte dei Talebani dopo il ritiro delle forze NATO.
Persone disperate ammassate negli aerei, attentati, sfollati, caos.
E tutto questo perché?
Alla base delle migrazioni di massa dei popoli dovute alla forte instabilità politica, c’è spesso una problematica che concerne il cambiamento climatico, e che da origine alle cosidette “guerre climatiche”.
A settembre, nonostante gli attacchi terroristici quasi giornalieri nella capitale e in tutto il Paese, giovani afgani, comprese moltissime giovani donne, hanno occupato le strade di Kabul per chiedere più attenzione nei confronti delle tematiche ambientali.
Il cambiamento climatico
Questo pezzo montuoso d’Asia è uno dei paesi più fragili al mondo a riflettere i danni dell’uomo sulla natura. Ma è anche uno dei meno equipaggiati per fronteggiare fenomeni atmosferici importanti.
Siccità, inondazioni, valanghe, frane, condizioni meteorologiche estreme, spostamento delle masse, e matrimoni infantili, sono problematiche frequenti in Afghanistan (come in altri paesi del terzo mondo).
Sono interconnesse tra loro, e destinate a peggiorare secondo gli esperti.
Il sovraffollamento di Kabul, la capitale, mette ancora più a dura prova le risorse, come l’acqua.
Nonostante il paese pulluli di montagne innevate e fiumi rigogliosi, l’acqua potabile è un lusso per molti afgani, in gran parte per via della guerra, la mala gestione delle risorse idriche, e la corruzione.
La connessione tra queste problematiche e i conflitti è un tema che è stato discusso a Glasgow, durante la Conferenza delle Parti o COP 26, dove si è ribadita l’urgenza di azzerare le emissioni a livello globale.
Nello specifico entro il 2050 e limitare l’aumento delle temperature a 1,5°C.
L’opera della quale parlerò in questo articolo è nata a Zaatari in Giordania. Ha visto sfilare uno dopo l’altro i delegati delle nazioni del COP 21 nel 2015 a Parigi.
Una mappa indossata sull’impatto del cambiamento climatico
Dress for our time nasce da una tenda smantellata donata dall’UNHCR all’artista Helen Storey, Professoressa e designer presso il London College of Fashion della University of Arts di Londra.
La tenda sotto la quale ha vissuto una famiglia di profughi siriani rifugiati nel campo di Zaatari, in Giordania, è stata la base di questo progetto e che ha visto collaborare diversi esperti sul clima.

Scienziati, imprese, università e ricercatori hanno discusso di come noi, in quanto specie stiamo reagendo o non al cambiamento climatico.
La prima installazione dell’abito nella stazione di St. Pancras International nel 2015 durò quattro giorni, ed fu incentrata sulla mappatura e la previsione del cambiamento climatico.
La stazione fu la porta d’accesso a Parigi in quel periodo, città che ospitò la conferenza delle United Nations Climate Change, COP 21.
I delegati che passarono nella stazione in occasione dell’evento, s’imbatterono nel primo abito couture dedicato al cambiamento climatico, che mostrava i dati dell’impatto in tre stadi diversi.
Ci sono voluti quattro anni per realizzare l’opera e l’aiuto di diverse realtà come Holition, Unilever, Met Office e UNHCR.
Il contributo di Londra
La prima, un celebre studio di innovazione creativa con sede a Londra, ha contribuito attraverso la realizzazione di una mappa di pixels del movimento umano proiettata sull’abito durante l’esibizione presso il Science Museum di Londra nel 2016.
Ogni pixel rappresentava cento persone sfollate e il loro insieme mostrava i percorsi che i rifugiati intraprendono dal loro paese d’origine ai diversi luoghi in cui si stabiliscono. Man mano che i pixel di luce si spostavano sul vestito, raggiungendo diversi luoghi e ramificandosi di nuovo, i contorni dei paesi diventavano evidenti.
I dati erano stati estrapolati da uno studio condotto da alcuni scienziati del Met Offices, servizio meteorologico nazionale del Regno Unito fondato nel 1854, con sede nella città di Exeter.
Quelli riguardanti l’immigrazione e la condizione dei popoli invece sono stati forniti dal rapporto annuale dell’UNHCR sulla migrazione globale.

Video e foto: l’abito in mostra al Science Museum di Londra, nel 2016. I pixel in movimento danno forma alla mappa.
La presenza di questi numeri, uniti alla forma dell’abito come mezzo, ha dotato l’installazione di realismo e concretezza. Unita ad un sentimento di connessione generato dall’associare l’umanità dietro quei numeri coinvolti nella crisi dei rifugiati.
Da un campo profughi in Giordania alla Biennale di Venezia
Dress of Our Time ha percorso le strade di Venezia indossato dalla modella Bianca Balti, nel 2019.
La performance è stata ripresa dal regista David Betteridge, è documentata in una video installazione alla mostra Rothko in Lampedusa in occasione della Biennale di Venezia del 2019. Si trattava di un progetto espositivo che presentava le opere di otto artisti contemporanei. Ognuno di loro ha vissuto l’esperienza dell’esilio e della fuga nel loro percorso artistico. Oltre a quelle di cinque artisti emergenti, oggi rifugiati.
L’abito è un oggetto comune che rappresenta il riparo, l’identità dell’essere umano.
E’ qualcosa che portiamo sempre dietro con noi, su di noi. E’ come se questa tenda, una volta trasformata in vestito, ricordasse l’identità mitigata e nascosta delle persone costrette a vivere sotto di essa, in territori nuovi, di fortuna. Un lungo strascico composto da tanti passi trasformati in lunghi percorsi, alla ricerca di un futuro e di una vita migliore.