I cosiddetti “environmental migrants” (esodi climatici) vengono descritti come persone o gruppi di persone che, a seguito di improvvisi o progressivi cambiamenti nel clima, nell’ecosistema e di conseguenza nelle loro condizioni di vita, si vedono costretti a lasciare le proprie case per spostarsi altrove.
Questo tipo di migrazioni può presentarsi come fenomeno interno a un paese, quindi esodi di massa da aree in pericolo verso zone interne alla nazione ma più sicure. Oppure come fenomeno esterno, andando quindi a coinvolgere stati esteri.
L’International Organisation for Migration propone tre differenti tipologie di “migranti climatici”:
- L’Environmental emergency migrants è volta a comprendere esodi temporanei a seguito di una violenta crisi climatica come può per esempio essere un inondazione o uno tsunami.
- La categoria Environmental forced migrants comprende invece individui costretti a fuggire a seguito di eventi di carattere progressivo, come la deforestazione del proprio habitat naturale o l’innalzamento del livello del mare.
- La terza ed ultima categoria si riferisce invece agli individui che migrano in prevenzione ad una situazione non ancora giunta al limite, nella speranza di evitare complicazioni future.
I dati parlano chiaro
Nei primi anni ‘90 ,l’International Panel on Climate Change (IPCC) comincia a svolgere ricerche sulle migrazioni dovute alle emergenze climatiche.
Nella metà degli anni ‘90, approssimativamente 25 milioni di persone sono state costrette a scappare dalle proprie case a seguito di eventi climatici devastanti. Tra questi ci sono l’inquinamento dell’aria, la degradazione del suolo e disastri naturali come inondazioni, grandi incendi ed erosione costiera.
Nel 2001, le stime del World Disasters Report of the Red Cross e di Red Crescent Societies parlavano di 50 milioni di rifugiati climatici entro il 2010.
Nel 2050, secondo il Professor Myers, il numero aumenterà fino a raggiungere i 200 milioni. Basta un semplice calcolo per predire che una persona ogni 45 al mondo sarà costretta ad emigrare per cause legate al cambiamento climatico.
Le stime dell’International Organization for Migration sottolineano un dato estremamente preoccupante e legato al presente. Circa 192 milioni di persone, in percentuale il 3% della popolazione mondiale, vivono attualmente al di fuori del loro paese di origine.
Esodi climatici a livello giuridico
Attualmente, chi migra per motivi ambientali rischia di rimanere senza protezione legale e viene automaticamente considerato come un migrante irregolare.
La Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 parla chiaro: il diritto internazionale contemporaneo si occupa solo di rifugiati politici.
Alcuni stati, come Svezia e Svizzera, hanno invece implementato una sorta di riconoscimento dei migranti che si ritrovano impossibilitati al ritorno nel loro paese a causa di disastri naturali.
La necessità di implementazione di strumenti volti alla tutela dei migranti climatici si rivela fondamentale quando prendiamo ad esempio gli abitanti delle isole del pacifico. Questi, a causa dell’innalzamento del livello dei mari, potrebbero tra qualche anno ritrovarsi senza uno Stato. In questo caso, secondo il diritto internazionale, gli abitanti potrebbero essere considerati “Stateless People” e trovare protezione nella Convenzione sull’Apolidia.
L’interconnessione tra fenomeni climatici e le guerre in corso in moltissimi paesi non fanno che aggravare il fenomeno.
La Siria, la guerra civile e la siccità
Molti studi recenti hanno sottolineato la connessione tra l’ondata di siccità che ha colpito la Siria tra il 2007 ed il 2010 e la guerra civile in atto dal 2011.
La siccità nella “Fertile Crescent” è stata la più lunga siccità ad aver mai colpito il paese.
Lo scienziato del clima, Colin P. Kelley, nel suo “Climate Change in the Fertile Crescent and Implications of the recent Syrian drought” analizza l’impatto del cambiamento climatico e ne attribuisce le cause ad agenti prevalentemente indotti dall’agire umano e dell’aumento di emissioni di gas serra.
Secondo Kelley, la siccità ha portato a un esodo di massa delle popolazioni agricole verso i centri urbani. Questo ha peggiorato la già precaria situazione siriana e peggiorando la situazione del mercato siriano. La situazione ha lasciato senza lavoro un milione di piccoli agricoltori.
Il governo di Hafez al-Assad (1971-2000) puntò molto sullo sviluppo agricolo siriano. Promosse politiche di redistribuzione della terra e per aumentare la produttività di essa, come l’incremento di sistemi di irrigazione mirata. Tutte queste politiche però hanno peggiorato la situazione del paese sfruttando le risorse di terra ed acqua senza bilanciare l’utilizzo con politiche di sostenibilità. Le gestione insostenibile delle falde, il riscaldamento globale ed il degrado ambientale perpetrato per decenni sono tutte cause a matrice climatica che hanno segnato, e continuano a farlo, un paese, i suoi abitanti e la scena internazionale. Le conseguenze della guerra in Siria le conosciamo tutti, milioni di sfollati, migliaia di morti, flussi continui di profughi che cercano rifugio in Europa e continue violazioni dei diritti umani.
“Preparation through education is less costly than learning through tragedy.”
– Max Mayfield, Direttore del National Hurricane Center dal 2000 al 2007.