Nonostante io sia un dodo, prima di leggere questo libro non conoscevo la storia delle estinzioni di massa nel dettaglio. Sapevo invece che stiamo vivendo un momento storico di perdita della biodiversità terrestre, ma non ne conoscevo l’entità e forse avevo anche paura di scoprirla.
Tuttavia, come diciamo sempre, è importante informarsi sulla situazione attuale per capire come cambiarla. Per fortuna esistono persone come Elizabeth Kolbert che riescono a spiegarci in modo semplice ma non riduttivo il quadro globale.
Kolbert è una giornalista statunitense che ha vinto il Premio Pulitzer proprio con il libro di cui parliamo oggi, La sesta estinzione (2014, BEAT).
Per scrivere questo magnifico resoconto scientifico sulla crisi climatica, ha girato il mondo intervistando studiosi ed esperti di ogni settore interessato. Con loro è andata personalmente, e ci ha portatə con lei, nei luoghi più colpiti dalla scomparsa di alcune specie fondamentali agli ecosistemi terrestri.
Ogni capitolo si concentra su una specie diversa, ma invece di limitarsi a elencare i dati scientifici e indiscutibili, approfondisce ogni argomentazione con aneddoti del passato.

L’Antropocene
Milioni di anni fa ci sono state cinque occasioni in cui il nostro pianeta ha quasi perso completamente la sua biodiversità. Queste estinzioni di massa sono chiamate “Big five” e l’ultima avvenne circa 65 milioni di anni fa, durante il Cretaceo-Paleocene. Per secoli non ci sono più stati casi così drastici e le uniche specie a estinguersi seguivano un disegno autoregolato dalla natura. Poi è iniziato l’Antropocene.
Da anni moltissimi scienziati hanno capito che non ci troviamo più nell’Olocene: le conseguenza dell’azione umana sono troppo grandi per non distinguerle in un’epoca geologica separata.
Una proposta interessante e paradossalmente divertente è quella del biologo Michael Soulé che consigliò di chiamarla Era Catastrofozoica.
Ma il termine che tutti conosciamo è naturalmente Antropocene. Questo fu pronunciato per la prima volta dal chimico olandese Paul Crutzen, vincitore del Nobel per la scoperta degli effetti della decomposizione della fascia di ozono. In poche parole, senza il suo contributo, il “buco” dell’ozono si sarebbe espanso da sopra il continente Antartico fino a racchiudere tutto il pianeta.
Crutzen pubblicò un saggio sulla rivista Nature, chiamato “Geology of mankind”, in cui identificava diversi cambiamenti geologici di cui l’uomo è responsabile, tra cui:
- L’attività umana ha trasformato quasi metà della superficie del pianeta;
- La maggior parte dei fiumi principali sono arginati o deviati;
- Più di un terzo della produzione delle acque oceaniche costiere è rimosso dalle industrie ittiche – questo discorso è approfondito anche nel concetto di sovrapesca e nel documentario Seaspiracy;
- L’essere umano usa più della metà delle risorse di acqua sorgente al mondo.
Quelli elencati da Crutzen sono i cambiamenti di portata geologica, ma è chiaro che ci sono tante altre attività umane, come la deforestazione e l’acidificazione degli oceani, che causano invece la perdita della biodiversità.

racconta il motivo di questa nuova classificazione dell’epoche geologiche.
La sesta estinzione
La crisi climatica spaventa chiunque comprenda di che si tratta, ma alcunə potrebbero pensare che l’estinzione di massa che stiamo vivendo si risolva come le precedenti cinque. Infatti se la Terra è sopravvissuta a quelle, sopravviverà anche a questa, e possiamo stare “tranquillə”.
In parte è vero che il pianeta probabilmente si riprenderebbe, seppur in tempi lunghissimi, ma l’essere umano scomparirebbe insieme alle altre specie. Quindi perché non cominciare subito a dare un po’ di respiro alla natura e lasciarla rigenerare mentre siamo ancora in tempo?
Il vero problema è che questa sesta estinzione non è come le prime cinque. Da un parte la magnitudo del cambiamento termico previsto per questo secolo è molto simile alle oscillazioni della temperatura nelle ere glaciali. Tuttavia l’attuale riscaldamento globale è dieci volte più veloce di quelli precedenti. Sarà difficilissimo quindi per gli organismi migrare in tempo verso zone con climi più vivibili. La maggior parte di essi non ce la faranno e il risultato saranno ecosistemi distrutti, in cui sono sopravvissute solo specie invasive e a volte nocive – come alcuni funghi che stanno uccidendo popolazioni di rane in Sud America e altri che colpiscono i pipistrelli statunitensi.