L’argomento non è nuovo: lo abbiamo introdotto in occasione dell’incontro con Bill McKibben e della recensione del libro di Mary Robinson, Climate Justice. Stiamo parlando della giustizia ambientale, definita come un movimento sociale che mira a raggiungere una distribuzione equa di oneri e benefici ambientali legati alla produzione economica. Esso affonda le sue radici nel movimento americano per i diritti civili degli anni ’60. Ma gli eventi cardine per la sua costituzione si sono svolti tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso.
Il concetto originario di giustizia ambientale era indissolubilmente legato alla discriminazione nei confronti di determinati gruppi etnici negli Stati Uniti. In seguito, il movimento ha incluso discriminazioni di genere, minoranze o provenienza geografica. Nel momento in cui ha raggiunto una certa popolarità, abbiamo iniziato ad analizzare la responsabilità ambientale nei confronti del sud del mondo: il movimento è quindi diventato globale, e alcuni dei suoi obiettivi sono stati formalizzati dalle Nazioni Unite [1].
In questo articolo approfondiremo le origini del movimento e seguiremo il suo viaggio verso la sua internazionalizzazione. Approfondiremo poi la situazione italiana odierna, con annessi consigli su come appellarsi alla legge qualora si subissero delle ingiustizie ambientali.
Origini del movimento della giustizia ambientale
Bean v. Southwestern Waste Management, Inc.
Nel 1979, l’avvocato Linda McKeever Bullard prese in carico la difesa del Northeast Community Action Group (NECAG), costituita da cittadini afro-americani di Houston, Texas. Esso si opponeva alla collocazione di una discarica a meno di 500 metri da una scuola pubblica del suo quartiere. Suo marito, Robert Bullard, che aveva da poco ottenuto un dottorato in sociologia, costituì un elemento chiave come esperto in materia nel corso del processo.

Insieme a un gruppo di ricercatori, documentò la collocazione degli impianti di smaltimento dei rifiuti a Houston. Il suo studio “Solid Waste Sites and the Black Houston Community” fornisce un certificato piuttosto accurato di eco-razzismo nella città di Houston. Infatti, 14 su 17 inceneritori e discariche, pubblici e privati, erano situati in quartieri abitati prevalentemente da afro-americani. Questo avveniva nonostante questi ultimi rappresentassero il 25% degli abitanti della città. Il processo che seguì, Bean v. Southwestern Waste Management, Inc., fu il primo a sancire che la discriminazione nell’ubicazione degli impianti di smaltimento dei rifiuti fosse una violazione dei diritti civili. Nonostante il processo non sia riuscito ad impedire che la nuova discarica fosse collocata nel loro quartiere, ha fornito un importante precedente per casi simili. In seguito, Bullard sarà riconosciuto come il padre della giustizia ambientale [3] [4].
Proteste della contea di Warren, North Carolina
L’evento che segna a tutti gli effetti l’inizio del movimento della giustizia ambientale negli Stati Uniti è la protesta della contea di Warren, North Carolina. Il susseguirsi di eventi ha inizio in seguito al divieto di produrre PCB (policlorobifenili, classificati come inquinanti persistenti dalla tossicità assimilabile alla diossina) nel 1977. In seguito al divieto, un’azienda produttrice di trasformatori l’anno successivo ha cercato un modo economico per disfarsi della sostanza. Decise quindi di rilasciarla lungo le strade di campagna di 15 contee del North Carolina, anziché pagare per il suo corretto smaltimento.
Nel 1981, il proprietario della compagnia Robert “Buck” Ward fu condannato per il reato. Tuttavia, questo non fu sufficiente. Gli abitanti della contea di Warren iniziarono a notare i primi segni di contaminazione e si organizzarono in gruppi di protesta. L’anno successivo, nel 1982, la comunità Afton della stessa contea venne scelta come sito di costruzione dell’impianto che avrebbe smaltito il terreno contaminato dalla compagnia di trasformatori. Ricordiamo che erano trascorsi ormai più di cinque anni dalla regolamentazione delle modalità di smaltimento del PCB. Ma, nonostante questo, ai cittadini non veniva data la possibilità di partecipare alla scelta del sito.

Diverse organizzazioni nazionali si unirono presto alle proteste dei residenti. L’attivista Benjamin Chavis ricondusse la decisione di costruire l’impianto di smaltimento a una matrice razziale. E contribuì quindi a definire ulteriormente le origini del movimento della giustizia ambientale. La contea di Warren era infatti una delle contee più povere della nazione, con il 65% di popolazione afro-americana e il 25% dei residenti che vivevano sotto la soglia della povertà.
Il governo del North Carolina però si rifiutò di riconsiderare la decisione sulla collocazione dell’impianto. Per questo la National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) iniziò a coordinare le proteste, durante le quali circa 500 tra attivisti e ambientalisti furono arrestati, incluso Chavis. Le marce e le proteste durarono sei settimane, abbastanza da far teorizzare ai manifestanti che la loro comunità fosse stata scelta non solo a causa della loro etnia, ma anche per la mancanza di potere politico dato dalla loro condizione socio-economica. Nonostante non siano riusciti a impedire la costruzione dell’impianto, essi iniziarono a dare ufficialmente voce alle proteste nei confronti dell’eco-razzismo che permeava gli Stati Uniti del tempo [4] [6] [7] [8].
Esportazione del movimento
Negli anni ’90, i principi della lotta per la giustizia ambientale iniziarono ad espandersi al di fuori del contesto statunitense. Questo fu sicuramente possibile grazie agli studi condotti da Bullard e altri studiosi del campo. Ma fu utile anche l’interessamento alla lotta da parte di importanti organizzazioni ambientaliste come Greenpeace e Sierra Club. Inizialmente, il movimento crebbe solo nei Paesi di madrelingua inglese e nei Paesi geograficamente vicini agli Stati Uniti. Tuttavia, anziché prendere la forma di lotta per i diritti civili e contro il razzismo, il movimento della giustizia ambientale diede vita ai partiti politici verdi, lottando contro le industrie estrattive, l’inquinamento e il cambiamento climatico. Il seguente approccio più si confaceva ai movimenti sociali e accademici vicini all’ecologia politica, oltre che abbracciare i contesti di lotta sul territorio [6].
La giustizia ambientale in Italia
Abbiamo assistito all’interessamento nei confronti delle tematiche di giustizia ambientale in Italia solo all’inizio degli anni 2000. Tuttavia, in precedenza si erano già verificati dei conflitti che, per loro natura, erano assimilabili a quelli per la giustizia ambientale, pur non essendo denominati come tali. Il caso più rilevante, secondo la ricercatrice Francesca Rosignoli, fu la forma di protesta non violenta di Danilo Dolci, il cui ruolo potrebbe essere equiparato a quello ricoperto da Bullard negli Stati Uniti. Infatti, egli si batté attivamente contro le discriminazioni, la povertà e la criminalità organizzata che pervadevano la Sicilia degli anni ’60. Il metodo rivoluzionario di Dolci, nonostante non avesse ancora modo di appellarsi ai principi di giustizia ambientale, consistette nella partecipazione attiva da parte del popolo per il popolo: prima di allora, infatti, il termine “associazione” era sempre stato associato alla criminalità organizzata [9].
Casi rilevanti
Parlando di criminalità organizzata, in Italia possiamo prendere come esempio diversi casi in cui il profitto ha avuto la precedenza sul diritto a vivere in un ambiente sano e pulito. Essi sono divenuti noti negli ultimi anni grazie all’attenzione mediatica che hanno ricevuto e grazie all’opera di associazioni e attivisti ambientali.
Terra dei Fuochi
Forse il più noto tra essi è il caso della Terra dei Fuochi, in quanto le conseguenze disastrose dell’accaduto si ripercuotono ancora oggi sui 3 milioni di abitanti dell’area che comprende 90 comuni in Campania. Il caso si riferisce allo scarico, interramento e incenerimento illegali di rifiuti tossici avvenuti tra la fine degli anni ’90 e 2000. Diverse industrie del Nord Italia, infatti, si sono rivolte alle ecomafie per tagliare i costi di smaltimento dei loro scarti industriali. Il fenomeno ha iniziato a ricevere risonanza mediatica a partire dal 2013, quando l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha menzionato l’accaduto durante il discorso di fine anno.
Fu quindi dopo ben 16 anni dall’illecito che si fece luce sulla vicenda. Infatti l’Ufficio di Presidenza della Camera richiese che le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Carmine Schiavone fossero rese pubbliche. Tuttavia, ancora oggi roghi di immondizia divampano, discariche illegali si materializzano e l’Italia paga 120 mila euro all’Unione Europea per ogni giorno di ritardo nella realizzazione delle opere di bonifica del territorio. I cittadini chiedono giustizia, ma vengono ascoltati solo parzialmente, anche dopo che un’indagine dell’Istituto Superiore di Sanità ha sancito che esiste una correlazione tra l’aumento dei casi di asma, tumore alla mammella e leucemie e i rifiuti che usurpano il territorio [10] [11] [12] [13].

Ilva di Taranto
L’inchiesta Ambiente Svenduto sull’ex Ilva di Taranto scoppia nel 2012, quando il gip Patrizia Todisco dispone il sequestro di sei impianti dell’area a caldo. Questo avvenne quando due perizie, una epidemiologica e una ambientale, erano concordi nel sostenere che la produzione dell’azienda siderurgica fosse correlata a un aumento dei casi di decessi e malattie. I terreni, gli animali e i prodotti caseari del territorio erano inquinati da diossina, insieme ad altre sostanze. Infatti, dalla fabbrica ogni anno si sollevavano 700 tonnellate di polveri, che andavano a depositarsi sugli edifici, sui campi coltivati e sugli animali di allevamento della città di Taranto.
A questo punto, la città si divide. Da un lato gli ambientalisti, che difendono il diritto alla salute, dall’altro gli operai, che difendono il diritto al lavoro. La decisione viene quindi rivista, concedendo alla fabbrica di tornare a operare allo scopo di ammodernare gli impianti. Tuttavia, i lavori richiesti dal tribunale non vengono mai completati e la famiglia Riva sfrutta anzi il massimale di produzione della fabbrica, continuando ad inquinare la città. Alla fine la vicenda si è parzialmente conclusa nel 2018. Sono state infatti arrestate diverse personalità di rilievo con accuse, tra le tante, di disastro ambientale, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro, avvelenamento di sostanze alimentari, omicidio colposo, associazione a delinquere e corruzione di atti giudiziari. Inoltre, l’azienda è stata venduta alla multinazionale ArcelorMittal, ma sono stati concessi cinque anni di transizione durante i quali la questione ambientale e industriale dovranno trovare un modo per coesistere [14] [15] [16].
Altri esempi
Questi sono solo due tra le tante vicende che hanno messo a repentaglio la salute dei cittadini. Tra gli altri casi più noti, abbiamo:
- l’area compresa tra Montichiari e Calcinato, in provincia di Brescia, che ospita il 76% dei rifiuti lombardi;
- il progetto del parco eolico nell’Appennino Settentrionale, che devasta il territorio naturale;
- la battaglia tra Milano e Polesine riguardo la diseguale distribuzione degli oneri derivanti dall’inquinamento del fiume Po;
- gli illeciti commessi dal gruppo Eni a danno della regione Basilicata, dove i reflui ricavati dall’estrazione petrolifera venivano reimmessi nel sottosuolo, e i campioni venivano preventivamente depurati prima di essere inviati in laboratorio, poiché contenevano livelli eccessivi di inquinanti;
- la TAV in Val di Susa, il cui solo inizio dei lavori ha causato l’abbattimento di più di 5000 alberi, l’estinzione di specie di piccoli animali presenti nel territorio e l’emissione di milioni di tonnellate di anidride carbonica.
Che strumenti abbiamo a nostra disposizione?
Attualmente, esiste un modo per contestare le decisioni prese da parte di pubbliche autorità in materia ambientale. Si tratta di un regolamento sull’accesso alla giustizia ambientale, attuazione della Convenzione di Aarhus, in vigore dal 2001. Lo scopo della convenzione era quello di dare la possibilità a individui e associazioni di accedere alle informazioni e di avere una voce in materia ambientale. Inoltre ottenevano il diritto di ricorso, se questi diritti non fossero stati rispettati. Questo dovrebbe facilitare la partecipazione pubblica nei processi decisionali. Tuttavia, accedere allo strumento non è semplice, tanto che l’Unione Europea ha dovuto rimediare pubblicando delle linee guida [17] [18].
Una riflessione personale
Dalle vicende avvenute dagli anni ’60 ad adesso, appare chiaro che spesso sono le aziende private a detenere la responsabilità etica di proteggere i cittadini del territorio in cui operano. Tuttavia, lo Stato dimostra di non avere il completo controllo del loro operato. Non interviene, nonostante avrebbe la possibilità di prevenire i danni, anziché procedere in seguito per vie giudiziarie, quando le conseguenze sono ormai evidenti.
Come dimostrano la vicenda dell’Ilva e della Terra dei Fuochi, la corruzione e la criminalità organizzata sono piaghe che continuano a ledere ancora oggi il nostro territorio e il nostro diritto alla salute. Tuttavia, sono davvero le aziende private a detenere il potere? La risposta è, molto probabilmente, sì, fintantoché gli sia concesso di operare indisturbate in nome del loro personale profitto. Allora è lecito chiedersi: qual è il contributo reale dello Stato nelle lotte per la giustizia ambientale? Può davvero la sola partecipazione attiva da parte dei cittadini cambiare le sorti di una vicenda?