La grande isola di plastica del Pacifico non è esattamente quello che vi immaginate. Un’area estremamente grande dell’oceano Pacifico settentrionale è invasa da una quantità impressionante di rifiuti plastici ma questi non hanno formato un agglomerato continuo come si potrebbe pensare.

Le origini dell’isola di plastica
La possibilità che si formasse una struttura di questo genere era già stata prefigurata sul finire degli anni ’80 da alcuni scienziati della NOAA.
Questi, studiando i rifiuti plastici galleggianti, dimostrarono la presenza di una corrente vorticosa all’interno dell’oceano Pacifico settentrionale. Conosciuto come North-Pacific Gyre, questo movimento di masse d’acqua ha, per quasi quarant’anni, raccolto rifiuti plastici.
Nel 1997 si ha la prima testimonianza di questo agglomerato di plastica. Il capitano Charlse Moore, durante l’attraversamento dell’oceano incappò in una grande quantità di rifiuti galleggianti. Data la moltitudine di plastica in un’area così remota del mare, era impossibile incolpare un singolo incidente. Si trattava infatti dell’isola di plastica che nel corso degli anni sarebbe cresciuta ancora in estensione.
È davvero un’isola?
Il nome “grande isola di plastica” ci ha per lungo tempo tratti in inganno; sentendone parlare ci immaginiamo un’area ininterrotta di rifiuti galleggianti. In realtà, attraversandola, ci si imbatte in piccoli pezzi di plastica, derivati da elementi più grandi che, a causa del continuo moto in acqua, si sono frammentati. Si forma così una brodaglia di piccoli frammenti galleggianti, accompagnati da scarti di grandi dimensioni che ancora non hanno subito l’azione del mare.
Per la maggior parte, circa il 94%, si tratta di microplastiche formatesi a seguito dell’azione del mare, del sole e di altri elementi combinati che frantumano i rifiuti. Con grande sorpresa la maggioranza dei rifiuti di plastica non è composta da bottiglie, materiale per impacchettamento o simili, Il 46% di detrito plastico è infatti composto da reti e strumenti legati all’industria della pesca che accidentalmente o volontariamente, vengono rilasciati in acqua. Questi strumenti, anche se non più utilizzati, rappresentano un serio pericolo per le creature marine, dato che pur non essendo collegati ai pescherecci, sono in grado di catturare moltissimi animali marini, come tartarughe, delfini e cetacei di ogni dimensione.
Quanto è grande?
Misurare precisamente la grandezza di un simile agglomerato di elementi plastici non è facile. Tuttavia, grazie ad una ricerca che ha visto l’utilizzo di una notevole flotta di navi e di alcuni aerei, è stato possibile determinare la grandezza di questa macchia sul nostro pianeta: 1,6 milioni di km2 l’area occupata da milioni di tonnellate di plastica nell’oceano Pacifico. Riuscire a visualizzare queste dimensioni è veramente difficile, per aiutarci, è pianeta: 1,6 milioni di km2 l’area occupata da milioni di tonnellate di plastica nell’oceano Pacifico.
Quest’area così estesa non è naturalmente un agglomerato continuo di materiale galleggiante, ma si stima che al suo interno galleggino 80.000 tonnellate di materiale plastico. A causa dei fattori ambientali studi dimostrano che la maggiore densità di detrito si accumula al centro, mentre verso l’esterno abbiamo una densità di oggetti di plastica decisamente inferiore.
Problematiche Ambientali
La presenza di questegrandi macchie di plastica sul pianeta ha gravi effetti per l’ecosistema marino. Non è possibile descrivere l’impatto diretto dell’isola di plastica sull’ambiente senza parlare dei singoli pericoli dati dalle plastiche in mare.
Per cominciare, il materiale da pesca, come reti o lenze, minaccia tutti quegli animali che necessitano di riemergere per respirare. Le reti da pesca fantasma possono intrappolare tartarughe o cetacei impedendo loro di raggiungere la superficie e, di conseguenza, soffocandoli. Elementi di piccole dimensioni e galleggianti attraggono molti animali, in particolare, uccelli marini che ingeriscono questi rifiuti e muoiono di stenti. Ancor più nota è la storia delle tartarughe di mare che scambiano i sacchetti di plastica per le loro prede naturali le meduse e, ingurgitandole, restano soffocate.
Zuppa di plastica
L’azione combinata dei raggi solari, del moto ondoso e della stessa acqua salata agisce sui rifiuti, degradandoli in elementi di dimensioni attorno al millimetro, dando origine a quelle che vengono chiamate microplastiche. In questo modo viene a formarsi un miscuglio di rifiuti di grandi dimensioni, microplastiche ed acqua, che non può essere meglio descritto dalle parole” zuppa di plastica”. Un miscuglio estremamente tossico per gli habitat oceanici. Gli elementi più piccoli, infatti, si rivelano nocivi per molti pesci che se ne nutrono accidentalmente; le scorie più grandi, come detto sopra, sono un pericolo per uccelli e cetacei. Ma vi è un terzo pericolo per il mare; infatti, tutti questi rilasciano sostanze cancerogene nell’acqua che vengono accumulate in ogni livello dell’ambiente marino, dai fondali, dagli animali e dalle alghe per arrivare infine all’uomo.
Anche il Mediterraneo non è al sicuro. Sembra infatti, che nonostante le sue piccole dimensioni al suo interno si raccolga il 7% del microplastico mondiale. Tra le zone più a rischio troviamo proprio il Mar Ligure che ospita il Santuario dei Cetacei. In parte ciò è dovuto alla struttura del Mediterraneo, che, essendo un bacino chiuso risente maggiormente dello sversamento di rifiuti, i quali non hanno modo di disperdersi.
Plastisfera

Questo termine, di recente introduzione, permette di indicare l’ecosistema che si viene a creare sui rifiuti galleggianti. È utilizzato per riferirsi in particolar modo alle comunità batteriche che proliferano sui frammenti. Queste comunità rappresentano un grave pericolo per ogni mare; infatti, ogni oceano presenta popolazioni di microrganismi diverse.
Grazie al fatto che le plastiche necessitano di un lungo periodo di tempo per poter venir degradate, questi possono essere trasportati per lungo tempo, finendo per colonizzare bacini oceanici nuovi diventando specie invasive.
Questo è un grave pericolo anche per l’umanità, alcune malattie presenti nelle acque di certe regioni potrebbero venir spinte in nuove aree dove potrebbero trasformarsi in un rischio per la salute di una nazione.
In tutto questo però si stanno trovando anche aiuti inaspettati, i ricercatori infatti hanno identificato alcune specie batteriche capaci di degradare la plastica, utilizzandola come fonte di nutrimento; la speranza è di utilizzare questi organismi come alleati per combattere un problema sempre più scottante.
Combattere la plastica
Contrastare questo problema non è facile; è necessario incominciare a lavorare sulla terra ferma, prestando attenzione a dove si buttano i rifiuti. Assicurarsi di svolgere una raccolta differenziata ben fatta è il primo grande passo per ridurre la formazione delle isole di plastica in mare. L’azione diretta dei singoli è molto importante; anche se sembra possa fare poco. Sfortunatamente solo recentemente nelle nostre acque si invoglia a raccogliere detriti galleggianti.
Molte associazioni poi lavorano attivamente per ridurre il quantitativo di rifiuti in mare. Ocean Cleanup è tra le più attive negli Stati Uniti, studiando la struttura dei gyre e dell’isola di plastica, sono riusciti a creare un metodo funzionante e valido per la raccolta di plastica in mare. Tutto il materiale raccolto viene poi filtrato e riciclato donandogli nuova vita.
Anche The Black Bag è in prima linea per ridurre l’inquinamento da plastiche. Pulendo sulle spiagge assicuriamo che gran parte dei rifiuti portati dal mare non vi finisca nuovamente insieme a molti nuovi elementi.
Fonti:
National Geographic: Laura Parker, National Geographic;The Great Pacific Garbage Patch Isn’t What You Think It Is
The Ocean Cleanup: The Great Pacific Garbage Patch
Focus: Ecologia Mediterraneo, zuppa di plastica