Ogni anno nei mari del mondo finiscono circa 8 milioni di tonnellate di plastica (quasi 600mila nel solo Mediterraneo). È ovviamente una stima: non è che qualcuno si mette a contare e pesare ogni singolo pezzo di plastica che arriva in acqua. Ogni anno produciamo più di 380 milioni di tonnellate di plastica e uno studio pubblicato su Science calcolò che più o meno l’1-3% di queste finiva nei mari. Sono appunto circa 8 milioni di tonnellate. E però, c’è un però.
Il però è che la plastica che troviamo e vediamo effettivamente negli oceani, nei fondali e soprattutto sulla superficie (la plastica è leggera, dovrebbe galleggiare), è molta, molta, molta meno di quella che dovrebbe essersi accumulata nel tempo. Circa 100 volte meno, cioè 250mila nuove tonnellate ogni anno. E tutto il resto? Dove finisce il resto della plastica che ogni anno buttiamo nei mari? È quello che si chiama il Problema della Plastica perduta (in inglese, The Missing Plastic Problem), e risolverlo può aiutare a capire come affrontare meglio questa importante questione ambientale.
Dove finisce la plastica che non vediamo?
Our World in Data, un sito parecchio noto nel mondo del data journalism, ha dedicato al tema un interessante approfondimento. La ricerca è basata anche sugli studi dei ricercatori Laurent Lebreton, Matthias Egger e Boyan Slat, che per lottare contro l’inquinamento da plastica nei mari hanno fra l’altro dato vita al progetto Ocean Cleanup. Lo scopo era capire, aiutandosi con i numeri, dove sta tutta la plastica che dovrebbe essere nelle acque del mondo. Ma senza, per esempio, comprendere le 5 enormi isole di spazzatura che si trovano nell’Atlantico, nel Pacifico (due per ciascuno) e nell’oceano Indiano.
Ne sono emerse alcune informazioni interessanti, che si capiscono meglio se si capisce quanto dura davvero la plastica nei mari: nei loro studi, Lebreton, Egger e Slat hanno trovato pezzi, anche di dimensioni generose, risalenti agli anni Settanta. Vuol che dire che sono lì da oltre 50 anni. Cinquant’anni, in cui non sono stati certo fermi in un posto. Il primo aspetto da capire è questo: la plastica è parecchio più resistente al decadimento di quello che pensavamo. L’altro aspetto è in qualche modo collegato a questo: secondo le ricerche fatte sul campo da Lebreton, Egger e Slat, che hanno preso in esame questo tipo di inquinamento dagli anni Cinquanta a oggi, la plastica passa talmente tanto tempo nei mari e negli oceani che molto spesso torna da dove era partita. E quindi torna sulle spiagge.

Analisi del grafico
Il fenomeno è evidente dal grafico qui sopra, elaborato da Owd partendo dai dati dei 3 ricercatori: la stragrande maggioranza delle plastiche che finiscono complessivamente nei mari (oltre il 65% del totale, cioè 40 milioni di tonnellate di quella micro e 80 milioni di quella macro) viene ritrovata lungo le coste, dove è riportata dalle correnti; ancora: la maggior parte delle macroplastiche presenti sulle spiagge hanno meno di 15 anni, e di queste il 79% ha meno di 5 anni. All’opposto: la microplastiche ritrovate lontano dalla terraferma sono lì da decenni, anche da oltre 40 anni; inoltre, circa il 75% delle microplastiche che stanno al largo risalgono a prima degli anni Novanta. Cioè a oltre trent’anni fa.
Capito questo passaggio? In mare aperto, lontano dalle coste, ci sono generalmente le plastiche più vecchie, mentre quelle più recenti sono spesso e ripetutamente portate sulle spiagge, o comunque nelle zone dove i fondali sono bassi, soprattutto nei primi anni in cui finiscono in mare. Ecco perché è importante e utile e in qualche modo più facile intervenire sulla terraferma: si hanno maggiori possibilità di intercettare le plastiche e in prospettiva futura di evitare che vadano al largo. Oppure anche sul fondo.
Le altre ipotesi sulla Plastica perduta
Perché l’altro problema, nel Problema della Plastica perduta, è questo: più o meno il 40% del materiale che finisce nei mari è composto da oggetti che sono più pesanti o comunque più densi dell’acqua (reti da pesca, mozziconi, le bottiglie delle bibite) e che dunque si depositano sul fondo, non li vediamo più e li dimentichiamo. Non solo: anche parte della plastica più leggera (come tappi o sacchetti) può finire sul fondo col passare del tempo, soprattutto per l’azione di alghe, microrganismi o molluschi che si attaccano a questi oggetti e li appesantiscono.
Infine c’è la questione delle cosiddette microplastiche, quelle di dimensioni inferiori ai 5 millimetri, un’altra parte che sfugge al nostro occhio: si generano soprattutto a causa dei raggi ultravioletti e per l’azione delle onde, che nel corso del tempo sfaldano gli oggetti di plastica sino a ridurli in pezzi piccoli e piccolissimi. Che poi finiscono sui fondali, in bocca ai pesci o addirittura dentro a microrganismi come il plancton. Complessivamente, le microplastiche non sono tante come si potrebbe immaginare e in qualche modo anche la loro origine è legata alle coste, perché è ovviamente lì che avviene la parte più significativa dell’attività di erosione e logorio del mare sugli oggetti, quella che li porta poi a scomporsi. Anche in questo caso, insomma, è dalla terraferma che dovremmo iniziare l’attività di contrasto all’inquinamento da plastica, per rimuoverla prima che diventi micro.
L’errore di calcolo
L’unica soluzione che non risolve il Problema della Plastica perduta è quella dell’errore di calcolo, che pure in passato è stata presa in considerazione: “Abbiamo esagerato con le stime, in mare c’è molta meno plastica di quello che si pensava”, si è immaginato (e forse pure un po’ sperato) per alcuni anni. E però non è così: come raccontato di recente su Nature, anche stime molto, molto conservative non riuscirebbero a spiegare la discrepanza che c’è fra la plastica che produciamo e usiamo e quella che poi ritroviamo in mare, dove sappiamo che finisce per i più svariati motivi. Il vero motivo per cui non la vediamo è che la cerchiamo nei posti sbagliati.