“Se posso aiutarla chieda pure”, sarà il mio mantra per i prossimi mesi qui dentro.
Guarda la stampa degli articoli venduti. Vai in magazzino. Cerca il codice. Prendi l’articolo. Strappa l’involucro. Tira fuori il capo. Taccheggia. Metti in vendita.
“Signora! Le chiedo gentilmente di igienizzare le mani all’ingresso! Grazie!”
Ripeto le stesse operazioni per circa venti volte durante il giorno, non si vende molto ultimamente, vista la situazione.
Ma non posso fare a meno di notare gli scarti di plastica degli involucri che lievitano nel cestino della spazzatura.
E se fossimo nei saldi? E se fosse un anno di vendita normale?
“E la differenziata?” chiedo.
“Ah, sì se vuoi puoi farla” mi rispondono.
La mia mente elabora immagini diverse, pezzi tratti da un documentario sulle isole di plastica nel Pacifico, inceneritori, fumo e altri collegamenti.
E poi… un altro pensiero.
Ogni busta che viene aperta è aperta perché qualcuno ha comprato e il prodotto deve essere rimpiazzato.
E perché quella persona ha comprato?
Assistendo i clienti alla vendita parlo con loro, noto degli schemi e inizio a portare a casa alcune di quelle buste trasparenti.
E così, inizio a pensare che quei sacchetti raccolgano dei pesi invisibili.
Alla ricerca di uno spazio, di leggerezza nel posto sbagliato, un’illusione: perché altro non è che un respiro di plastica.
“Non mi serve nulla in realtà ma prendo questo per cambiare un po’.”
“Ma sì, ho bisogno di tirarmi su perché sono un po’ depressa.”
“La sera ho bisogno di un bicchiere di vino per stare meglio.”
“Sono troppo vecchia.”
“Sono troppo grassa.”
“Sono troppo bassa.”
Non sono abbastanza.
Un sollievo temporaneo che consuma
Lungo il corso di alcuni mesi, ho raccolto gli involucri in plastica che ogni giorno toglievo dai capi che vendevo nel negozio di un noto brand italiano di abbigliamento dove lavoravo e ne ho fatto un vestito.
Ho servito clienti che talvolta compravano per coprire il suono di dolori che echeggiavano in brevi conversazioni e ho posato quei sacchi sulle spalle di quest’abito.
Respiro è un’opera concettuale che dà forma a una riflessione personale sull’ambiguità del bello che troviamo nell’industria della moda e nel suo consumismo: un sollievo temporaneo, un respiro di plastica, che consuma la natura e l’uomo.

È una sintesi delle ambiguità nascoste dietro i sorrisi accattivanti dei modelli dei cartelloni appesi qua e là che, giorno dopo giorno, si sono rivelate sotto i miei occhi.
Dai jeans in vendita, accompagnati da cartellini verdi che decantano un impegno fittizio verso una produzione eco-friendly, sfilati uno dopo l’altro da buste di plastica (monouso, buttate nell’indifferenziata senza remore) al palese greenwashing della poco credibile sezione “sostenibilità” sul sito della casa madre del brand.
Poi i clienti, che entravano in negozio alla ricerca di un conforto, ma che per i commessi meno attenti o meno propensi a porsi domande, rappresentavano solo uno dei tanti scontrini volti ad alzare l’UPT dello store.
L’opera: Respiro


