Siamo abituati a pensare che gli odierni cambiamenti climatici siano causati dall’utilizzo dei combustibili fossili, dalla deforestazione e dai trasporti, e spesso dimentichiamo (o forse proprio non ci accorgiamo?) di quanto le nostre abitudini legate all’alimentazione possano influire sul problema, fino a esserne la causa principale.
Se tutte le attività dell’uomo sono aumentate a causa dell’incremento delle nascite e dell’aspettativa di vita, anche la produzione della filiera alimentare è strettamente legata ai consumi, al numero di persone che deve soddisfare.
La popolazione, sebbene a piccoli passi, continua infatti a crescere: nel 1927 eravamo 2 miliardi, adesso circa 7,7 miliardi, e le proiezioni mostrano che nel 2050 toccheremo la soglia di quasi 10 miliardi. La crescita continua, ma rimane sempre basata su un utilizzo crescente di materie prime concesse da un pianeta che però ha risorse limitate.
Con l’aumento della popolazione, del suo benessere e del consumo, tutto si è industrializzato raggiungendo i livelli della grande produzione: le fattorie di una volta sono diventati allevamenti intensivi, la pesca si è trasformata in overfishing e dove prima cresceva un ortaggio, ora deve esserci spazio per tre.
Come spiega Ciconte, direttore dell’associazione Terra!, quasi un terzo della nostra impronta ecologica sul pianeta è dovuto all’alimentazione: l’agricoltura e gli altri usi della terra sono responsabili del 23% delle emissioni totali di gas serra, cifra che arriva al 37% se consideriamo tutta la filiera.
È quindi chiaro che tutto il processo produttivo alimentare influisca sul clima. Prendiamo gli esempi di agricoltura e allevamento: il primo problema è dato dall’utilizzo eccessivo del suolo, seguito dall’impiego di sostanze nocive per l’ambiente (quali pesticidi/fertilizzanti, e vaccini nel caso dell’allevamento), ma ciò che può stupire è il consumo di risorse idriche prodotto in quasi tutte le fasi della filiera. Tutto ciò che giornalmente mangiamo ha infatti un costo in termini di consumo d’acqua. Un gruppo di ricercatori della University of Twente (NL) ha condotto uno studio per calcolare proprio la Water Footprint , la misura volumetrica del consumo e inquinamento dell’acqua per ogni singola attività o produzione.
Per fare qualche esempio: sono necessari 70 litri di acqua per produrre 1 frutto, 2.500 litri per 1 kg di riso, e addirittura 15.400 litri per 1 kg di carne di manzo.
Il capitolo della plastica
Se guardiamo all’interno del nostro frigo e delle nostre dispense, sicuramente ognuno di noi troverà alcuni di questi prodotti: yogurt monoporzioni, affettati confezionati, bottigliette d’acqua e magari anche qualche verdura debitamente impacchettata.
Se tantissimi danni vengono causati dall’intera catena di produzione, il massimo degli orrori viene raggiunto nell’ultima fase, perché tutto ciò che vediamo sulla nostra tavola è stato coltivato, raccolto, trasportato e, solo alla fine, imbustato o confezionato (chi di noi non si ricorda l’#OrangeGate, il caso mediatico scoppiato sui social nel 2016, a causa di mandarini sbucciati e impacchettati?).

Secondo il report pubblicato a marzo 2019 dal WWF, la produzione di plastica è aumentata, a partire dal 1950, di ben 200 volte. In particolare nel 2016, la produzione ha toccato le 396 milioni di tonnellate (ben 53 kg per ognuno di noi), causando emissioni per circa 2 miliardi di tonnellate di CO2.
In particolare l’Italia, nonostante gli enormi passi in avanti in relazione alla produzione e soprattutto al riciclo della plastica, purtroppo figura ancora al primo posto per i consumi di acqua minerale in bottiglia, con 206 litri a testa l’anno. E anche i consumi di plastica pro capite rimangono allarmanti: ogni 5 giorni, ogni italiano produce in media un chilogrammo di rifiuti plastici.
Sostenibilità alimentare: cosa possiamo fare.
Il concetto di sostenibilità alimentare abbraccia tutta la catena di produzione, senza doversi per forza limitare all’ultima fase del consumo.
Secondo la definizione della FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, un’alimentazione può definirsi sostenibile se adeguata non solo da un punto di vista nutrizionale, ma anche in termini di impatto ambientale, e perciò deve essere composta da alimenti prodotti con basse emissioni di carbonio, rispettosi degli ecosistemi, sani da un punto di vista nutrizionale ed economicamente accessibili a tutti.
Tante cose dovrebbero quindi cambiare nel modo di produrre, allevare, coltivare, trasportare e distribuire, ma tutti noi possiamo, in qualità di semplici consumatori, contribuire a raggiungere l’obiettivo: consumare meglio, meno e senza sprechi.
- Meno prodotti di origine animale
Impossibile per me non mangiare carne – direte voi. Chi scrive ama i salumi, i formaggi e le tagliatelle all’uovo, ma qualcosa si può fare.
Sebbene, chiaramente, la soluzione ideale sarebbe quella di passare ad un’alimentazione completamente vegetariana o vegana, riducendo così al minimo il consumo di prodotti alimentari di origine animale, qualche accortezza al momento della spesa può essere risolutiva: pollame e pesce pescato con metodi sostenibili al posto della carne rossa, formaggi a km zero e uova bio.
Uno studio del WWF proprio sull’alimentazione sostenibile ha infatti evidenziato che una spesa locale e bio può fare la differenza. Acquistare locale significa infatti ridurre la filiera di cui parlavamo prima, eliminando la fase dei trasporti e le connesse emissioni. Basti pensare che il trasporto aereo di certi alimenti da una parte all’altra del pianeta possiede un gravissimo impatto sul clima, poiché può generare circa 1.700 volte più emissioni di CO2 rispetto al trasporto in camion per 50 km, e che oggi il 98% dei prodotti freschi italiani viene trasportato ad una distanza minima di 50 km rispetto al luogo di produzione.
L’agricoltura biologica, d’altra parte (oltre a garantire cibi più sani per il nostro benessere) comporta diversi vantaggi per l’ambiente: favorisce la fertilità del suolo e riduce il rischio di contaminazione dei corsi d’acqua eliminando l’utilizzo di sostanze chimiche (come fertilizzanti chimici per le piante, antibiotici e ormoni per gli animali), riduce l’irrogazione intensiva ed impiega tecniche e macchinari che comportano un consumo di energia minore rispetto a quelli usati nelle agricolture convenzionali.
- Consumare meno cibo
La tendenza al sovra consumo è un fenomeno presente a livello globale e causa, oltre a fenomeni quali l’obesità, una superflua ed insensata domanda alimentare che a sua volta è responsabile dell’intensificazione delle produzioni (che intensive sono già). Un gatto che si morde la coda.
Comprare locale e bio porta sicuramente ad una minore capacità di conservazione degli alimenti che acquistiamo, rendendo di fatto impossibile le “scorte” di cibo ed obbligandoci a comprare solo il necessario.
- Ridurre gli sprechi
Chiaramente la riduzione degli sprechi è la prima conseguenza di una spesa pensata e calibrata: ma stare attenti a cosa compriamo e alla data di scadenza non basta. Bisogna sempre tenere a mente che ogni prodotto comprato andrà poi smaltito.
Non è solo quanto compriamo, ma in che forma lo scegliamo.
La nostra vita frenetica ha dimezzato il tempo a disposizione da spendere in cucina e ci ha portati a prediligere il famoso “food to go”, una serie di prodotti pronti da scaldare, di insalate in busta, surgelati e caffè in cialde. Ciò aumenta il quantitativo di materiale che deve essere riciclato ed eliminato.
Vero è che non è interamente colpa nostra. Packagings attraenti e spot pubblicitari studiati ad hoc ci portano a fare determinati acquisti al supermercato: ma siamo davvero così deboli?